Personaggi tipici
Felice Paneroni,
"il pazzo dell'astronomia, che circa il 1918 firmava sui muri di Milano grandi scritte a carbone che
sonavano cosi: "Astronomi somari, avete sbagliato tutti! ". In che avessero sbagliato gli astronomi non si è mai saputo
di preciso, ma in una città cosi cultrice delle scienze come Milano, vuol essere rappresentata anche la scienza pazza.
Chi assicura del resto che la pazzia fosse nella testa di Paneroni, e la saggezza in quella degli astronomi che non
scrivono sui muri ma nei libri?"
da: Ascolto il tuo cuore, città (di Alberto Savinio=Andrea De Chirico).
El Fallatajà
"Prima del pazzo dell'astronomia (Felice Paneroni), Milano aveva ospitato il pazzo della filosofia. Costui si chiamava
Gregorio Pezzoli, ma era più noto col soprannome di Fallatajà.
Fallatajà era autore di libri di pensiero, e la sua opera capitale, Perchè ho dato agli uomini luce e verità,
era per Fallatajà ciò che Il mondo come volontà e rappresentazione è per Arturo Schopenhauer.
I libri di Fallatajà erano esposti in una piccola libreria di via Larga, e recavano in copertina il ritratto dell'autore.
Più che come filosofo, Fallatajà era celebre a Milano per le sue qualità vestimentarie. Portava dei completi da
direttore di circo, chiarissimi e a quadroni, e i suoi candidi panciotti di millerighe davano idea che Fallatajà si
reggesse sullo stomaco una piccola tomba; sotto al bombino caffellatte, un'ampia chioma pioveva sulle spalle,
inforforandole via via e spolverandole. Di falsi Cristi in quel tempo di libero pensiero era pieno il Quartiere Latino
di Parigi, lo Schwabing di Monaco, la stessa Galleria di Milano, ma nessuno che alla chioma nazzarena associasse
un'eleganza di manichino. In questo era il carattere originale di Fallatajà.
Per nulla al mondo vorrei macchiarmi di barbarismi, ma sento il dovere di chiarire che "millerighe" è il nome italiano
di picchè.
Quando Fallatajà andava in giro per Milano, i ragazzi di strada lo seguitavano a distanza, additavano la sua chioma
nazzarena, gli gridavano dietro con la cadenza dell'esortatore navale: "Falla tajà! Falla tajà! Falla tajà! ". Da qui
il soprannome.
Sembra una vita comica e invece era una vita tragicissima. Sotto quel panciotto marmoreo, dietro quei baffetti lustri
che di tanto in tanto egli si affilava con le dita umettate di saliva, di là da quello sguardo rigido e lustro, oltre
quell'apparenza di automa a sistema di orologeria, colui che aveva donato agli uomini luce e verità viveva un'angoscia
senza tregua, macerava in una disperazione muta, s'irrigidiva dentro la prigione del ridicolo, che la crudeltà degli
uomini gli aveva murato intorno. Posare gli occhi su quell'uomo, ludibrio di tutta una città, mi sembrava vergognoso e
vile. Quando vedevo quel San Sebastiano dello sbeffeggiamento arrivare di lontano, isolato dentro una zona vuota,
solitario come un lebbroso, io abbassavo lo sguardo e pensavo agli eroi.
Amore, affetti familiari, a tutto aveva dovuto rinunciare Fallatajà. Anche la solitudine gli era vietata.
Un giorno, era estate, Fallatajà fu visto arrivare dal fondo di via Dante. Traversò i Portici Settentrionali,
imboccò la Galleria, andò a sedersi a un tavolino del Biffi e ordinò un gelato. Quel pensatore aveva dei gusti da gatta,
leccava i gelati di crema con la lingua penzoloni. Un cerchio di curiosi gli si strinse intorno.
D'un tratto, una voce piccina, puntuta, gridò: " Falla tajà! ".
Fu meno forte quel giorno l'animo di Fallatajà? Una nube di sangue gli passò sulla faccia di cera. La sua mano scattò:
buttò indietro la falda della giacca a quadroni, tirò fuori dalla tasca posteriore dei calzoni una grossa rivoltella
nera, la posò sul tavolino accanto al gelato, che intanto si andava disciogliendo in un laghetto iridescente.
Ma quella mano non minacciò. II braccio indi a poco ritornò tranquillo alla sua positura da zampa di cavalletta, il
pollice agganciato alla svasatura del marmoreo panciotto. Le gambe rimasero immobili e accavallate, a far mostra
delle caviglie fini, delle ghette bianche, delle scarpe di coppale, lucide e puntute come siluri. Mai un istante lo
sguardo di quell'uomo che viveva un incubo, smise di guardare diritto davanti a sé; e a non vedere. Allora i
beffeggiatori indietreggiarono come belve davanti al fuoco, si scavalcavano a vicenda per porsi ciascuno al riparo
dell'altro.
Per alcuni giorni Fallatajà non fu veduto a Milano, e forse ebbe a che fare con la questura. Quando riapparve, aveva i
capelli corti.
I ragazzi ricominciarono a perseguitarlo. Solo il grido mutò. Gridavano: "Lasciala crescere!"
(Falla cress!).
da: Ascolto il tuo cuore, città (di Alberto Savinio=Andrea De Chirico)